centoventi / 8
date » 25-10-2022
permalink » url
FOTOGRAFARE
Il fotografo disse: In effetti, cerco di ritrovare la mia adolescenza un po’ mogia.
Più tardi aggiunse: La fotografia è un’ arte funebre, appena scattata è già nel passato.
Quindi, possiamo essere certi che la fotografia non è nient’altro che una linea variegata e abbastanza disordinata che tenta di dare una immagine del tempo.
Il tempo è un fantasma che accompagna il fotografo, ma rimanendo sempre con lo sguardo rivolto dietro di sé.
Il fotografo scruta curioso ciò che lo circonda nei suoi vagabondaggi, è un flâneur che incede con una distratta attenzione; sa che il suo fantasma custode vede lontano, nei suoi primi anni, quando un bambino e un adolescente aprivano gli occhi sul mondo, goffi e disorientati.
fotografia di Robert Doisneau
centoventi / 7
date » 09-10-2022
permalink » url
UNA STORIA
Raccontami una storia
disse il figlio al padre, mentre il buio stava calando.
Raccontami una storia,
per potermi addormentare senza paure,
per entrare nella notte accompagnato.
Ti racconterò una storia,
rispose il padre al figlio,
una storia che viene da lontano,
e come tutte le storie antiche parla di ieri, di oggi e di domani,
parla di vite e di morti, e di amori e di odi,
di assurde e disperate ricerche di qualcosa che manca sempre,
che non possiamo avere se non nei sogni.
Ma le storie creano i sogni, e i sogni possono creare il mondo in cui viviamo,
e i sogni ci accompagnano, sono gioielli che illuminano il buio.
Così la notte non farà paura.
fotografia di Heinrich Schliemann
centoventi / 6
date » 19-09-2022
permalink » url
MORTE
A volte la morte si incontra vivendo.
Quando ci abbandonano i nostri genitori, fratelli, nonni.
Quando se ne vanno amiche e amici, persone che abbiamo amato.
Quando bisogna fare una iniezione ad animali che hanno vissuto nei nostri giardini.
Ma anche la nostra morte, quando qualcosa si insinua nel nostro corpo, e inizi la partita a scacchi alla Bergman, cercando di ricordare le mosse che forse potrebbero spiazzare l’ avversario.
Magari pensando che a un altro gioco saresti molto più bravo, non certo di vincere, questo sarebbe troppo, ma con qualche possibilità in più.
Allora, per stare meglio, si prova l’ esperienza del deserto. Per incontrare, scarna ed essenziale, quella che chiamano essenza. Senza sapere di cosa si tratta.
fotografia di James Nachtwey
centoventi / 5
date » 11-09-2022
permalink » url
SENZA RESPIRO
Nel vasto campionario di atti a disposizione degli esseri umani il gesto del tuffarsi è uno dei meno sfruttati e dei più estremi.
Una intera e variegata sequenza di sensazioni ed emozioni condensate in un breve istante:
il brivido avvicinandosi al bordo
la paura quando lo sguardo si rivolge verso il basso
il coraggio nel momento dello stacco
il terrore dell’irreversibilità
l’esaltazione del volo folle
l’affanno del tempo che scorre impazzito
lo shock dell’impatto
e infine trovarsi avvolto in una danza armoniosamente scomposta, nella quale incontrare se stesso e l’altro, quell’ altro che forse non è altro che il tuo riflesso, cercato a lungo, trovato per un istante in altri occhi e in altre movenze.
Rimanendo senza respiro.
fotografia di André Kertész
centoventi / 4
date » 24-08-2022
permalink » url
LA GRAZIA
Quando Canova scolpì le sue Grazie, inseguiva un’ idea di sfarzosa eleganza e sensualità. Quando sogno di viaggiare in Giappone sto inseguendo una idea di grazia del tutto differente.
Van Gogh aveva raccolto dall’ arte giapponese la disperata violenza del colore puro, con il quale plasmava i suoi ritratti appassionati dove ogni espressione era gridata con una voce roca e alterata.
Ma cerco in quelle isole una idea di grazia differente.
Una grazia composta di rarefazione, di silenzio, di movimenti leggeri e quasi impercettibili. Una grazia che scorra lievemente durante le ore del giorno, troppo simile a quei fiocchi di neve che sanno di infanzia, di storie raccontate da un nonno dopo cena, quando tutto doveva ancora accadere.
fotografia di Werner Bishof
centoventi / 3
date » 23-08-2022
permalink » url
TAO
Il suo sogno era dipingere con un solo rapido e spontaneo tratto di pennello la linea essenziale delle cose e della propria anima. Incarnando nel proprio gesto la citazione di Su Dongpo appesa nel proprio studio: Prima di dipingere un bambù bisogna che il bambù cresca nel vostro intimo.
Ma troppo incerta la mano, e soprattutto troppo impaziente l’anima.
Così intraprese un percorso frammentato e irto per generare pazienza e vuoto.
Molte le incertezze, innumerevoli gli arresti.
Si moltiplicarono tentativi, spesso goffi e maldestri, creando un insieme tenero e commovente.
Forse alla fine fu premiato da qualche creazione che si avvicinava all’ anima.
Forse la fine non era ancora arrivata, e rimanevano tempo e spazio per contemplare ancora. Silenziosamente.
fotografia di Yamamoto Masao
centoventi / 2
date » 15-08-2022
permalink » url
FINESTRE
Un filosofo scrisse un libro sull’ ontologia delle finestre. Astratto e astruso.
Decisamente meglio i numerosi film sulle finestre: l’ incomparabile James Stewart con la gamba rotta e la macchina fotografica in mano che scruta la vita nelle case di fronte a lui era molto più concreto e filosofico.
D’ altra parte chi scatta fotografie sta sempre alla finestra. È un insondabile mix di voyeur, entomologo, nostalgico, esteta. Una miscela che si chiama desiderio. Il fotografo (e la fotografa, naturalmente) sono soggetti desideranti a tempo pieno, che si illudono teneramente che una vita alla finestra sia quasi più vera che una vita vera.
Ma forse così capiscono il senso profondo del deserto, che sta fuori e che sta dentro.
fotografia di Lee Miller
centoventi / 1
date » 07-08-2022
permalink » url
IL SORRISO SCONOSCIUTO
La vita è zeppa di guai e di circostanze avverse, su questo non esiste dubbio. L’elenco potrebbe essere assai lungo e in fondo inutile: ognuno può qualificarsi esperto in sofferenza.
Ma.
Esistono alcuni lievi antidoti, non del tutto illusori.
Uno di questi è il sorriso. Non i sorrisi sarcastici e soddisfatti di chi afferma il “te l’avevo detto”, o quelli di superiorità che sprizzano soddisfazione da tutte le pieghe delle labbra.
No.
Intendo i sorrisi appena accennati, con lievi incurvature delle labbra e addolcimento degli occhi, non facili da cogliere. Sono sorrisi rivolti alla propria intimità, persi in un pensiero o in un ricordo di qualcosa che ha ammorbidito l’anima. Sono leggere sensazioni di una vita possibile.
foto Ferdinando Scianna
HCB e la Cina
date » 27-12-2021
permalink » url
Qualche mese fa, in un’occasione un po’ particolare, mi hanno regalato questo libro. È un libro prezioso per tanti motivi, e sarebbe troppo lungo elencarli tutti; me ne permetto uno solo, decisamente autoreferenziale: è stato pubblicato nello stesso anno in cui sono nato io. “Da una Cina all’altra”, edito da Robert Delpire a Parigi, è il frutto di undici mesi di permanenza di Henri Cartier-Bresson in Cina, dai primi di dicembre del 1948 alla fine di settembre del 1949: i mesi in cui si compie la rivoluzione di Mao e crolla il regime nazionalista di Chang Kai Shek.
È un libro storico, sia per la documentazione raccolta, sia per una famosa prefazione di un monumento della cultura novecentesca: Jean-Paul Sartre, il quale cerca di impostare un dialogo con le immagini di Cartier-Bresson. Cerca soltanto di impostare, perché, a mio avviso, ci riesce ben poco.
Nelle prime battute della prefazione Sartre scrive: “Le fotografie di Cartie-Bresson non chiacchierano mai. Non sono affatto delle idee, ma le fanno venire a noi, senza volerlo.”. È un apprezzamento ambiguo, forse perfino un po’ ipocrita, ma è la cosa migliore della prefazione, e, forse senza volerlo, Sartre colpisce nel segno: perché la chiacchiera, l’ideologia, la retorica emergono lentamente ma inesorabilmente nelle righe della prefazione, e finiscono per costruire una interpretazione che, a tanti anni di distanza, suona a tratti perfino grottesca. O, comunque, un esempio perfetto di chi cerca in tutti i modi di adattare una realtà, filtrata in questo caso dalle fotografie di un reportage durato un anno, alla propria visione del mondo.
Quanto diverse le parole delle didascalie che accompagnano le immagini: semplici, secche, a volte (ma solo raramente) accompagnate da una breve considerazione personale, un commento spontaneo che può quasi risuonare ingenuo, certamente immediato.
E soprattutto, quanto diverse e potenti le immagini. Cartier-Bresson cerca le persone, colte sia nella solitudine che ne attraversa l’esistenza, sia nelle relazioni con gli altri. Cerca sia ciò che rende quelle persone ben caratterizzate, cinesi alla metà del XX secolo, sia quella parte di umanità comune a tutti che emerge da molteplici sfumature: sono persone diverse da noi che li stiamo guardando a distanza di miglia e di anni, ma anche fatte della nostra stessa sostanza, dei nostri sogni ed emozioni. Sono le immagini rapide che faranno la storia e la fama di HCB, istantanee apparentemente colte al volo, ma tutte basate su una costruzione proveniente da un occhio che sa cogliere immediatamente rapporti, tra ombre e luci, persone, spazi pieni e vuoti, azione e immobilità.
Una foto mi ha colpito particolarmente: si vedono tre persone che in un cortile, che si immagina ampio e deserto, stanno facendo sequenze di Tai Chi. Tre uomini adulti con lo sguardo rivolto verso tre direzioni differenti. I due ai lati, più lontani dal fotografo, e quindi più piccoli, sono perfettamente riquadrati da due portali ad arco che si aprono sul palazzo di fondo. Il terzo, al centro, più alto, è in corrispondenza di un rilevo sul muro dello stesso palazzo. Le mani dei tre sono orientate diversamente nello spazio, ma tutte cercano di congiungersi. Tutto l’insieme sa di armonia, eleganza, consapevolezza.
Ma c’è anche la storia, e la relazione tra le persone e i grandi avvenimenti che in quei due anni, 1948 e 49, trasformeranno radicalmente la società cinese. La storia messa in scena dai ritratti di generali, politici, deputati, la storia che compare sui manifesti appesi dietro a venditori ambulanti di sigarette contraffatte, la storia che fa muovere masse di persone, spesso (quasi sempre?) inconsapevoli di ciò a cui stanno andando incontro.
Due immagini mi colpiscono profondamente.
La prima è corredata da questa didascalia: “Le otto del mattino al Palazzo imperiale di Pechino. 10.000 reclute, mobilitate soprattutto tra i piccoli commercianti, sono state riunite per formare un nuovo reggimento nazionalista”. Si vede la massa di questi uomini, tutti vestiti di scuro, che sfuma in una nebbia in lontananza; davanti, in primo piano, un ufficiale, di spalle, che non pare neanche guardarli: lo sguardo pare perso in una riflessione tutta interiore. Ma la cosa più sconvolgente di questa immagine è che quasi tutti gli uomini in prima fila ridono; risate soddisfatte, come se stessero per recarsi a una festa, a una sana bevuta collettiva. Probabilmente nel giro di qualche mese saranno tutti morti.
L’altra foto ci fa vedere due cortei, in direzioni opposte. In primo piano un corteo di suonatori che, in abiti tradizionali, con giganteschi tamburi, sta accompagnando una sposa nascosta in una lettiga dal suo sposo per celebrare le nozze. In senso opposto, in secondo piano, un folto gruppo di soldati che si sta allontanando, ognuno reggendo sulle spalle un bastone con sospesi in equilibrio sacchi, pentole, cianfrusaglie. I due cortei si ignorano. A chiudere lo spazio una fila di case, quasi un terzo corteo di costruzioni uguali e deserte. Regna la confusione in questa immagine, e la didascalia, apposta due pagine dopo, ci avvisa che i soldati fanno parte delle “truppe del Kuomintang che battono in ritirata”.
Questa è la storia, e queste immagini provocano pensieri, domande, anche perché sono esse stesse idee, al contrario di quello che sosteneva Sartre. Sono idee che ci interrogano, e, soprattutto, ci chiedono di spogliarci della assurda pretesa di imporre la nostra visione al mondo, ma di riflettere e accogliere la complessità e l’inquietudine dell’esistenza.
autoritratto #11
IN LODE DELL’IMPERFEZIONE
Il 23 maggio del 1975 viene inaugurata al MOMA di New York una mostra fotografica che espone gli ultimi lavori di Irving Penn, uno dei più famosi fotografi di moda del Novecento, star di Vogue, e in seguito autore di iconici ritratti di artisti, attori e attrici, personaggi della politica. La mostra si intitola semplicemente “Recent work by Irving Penn” ed è costituita da 14 grandi stampe al platino alle quali Penn aveva lavorato per un anno, al fine di raggiungere una perfezione di stampa assoluta con una ricchezza di particolari e una completezza di tonalità straordinarie. Tutte le 14 fotografie rappresentano mozziconi di sigaretta: cicche allineate singolarmente, a coppie, in gruppetti di tre, ben schiacciate, appena tolte dai posacenere in cui erano finite (o forse raccolte per terra). Sono ben visibili le marche, i frammenti di tabacco combusti, le macchie causate dall’uso e dallo schiacciamento.
Penn, nato a Plainfield, New Jersey, nel 1917, nelle sue varie sperimentazioni aveva anche ideato un modo molto particolare di costruire i suoi ritratti, creando i “Corner portraits”. Aveva infatti inventato un set a forma di angolo acuto ottenuto unendo due pannelli bianchi posati su una vecchia moquette stesa sul pavimento; costringeva le persone in quell’angolo e li fotografava mentre cercavano di adattarsi a quello spazio angusto e scomodo. Inaspettatamente quella idea piaceva molto ai soggetti fotografati, tanto che Penn racconterà in una intervista rilasciata anni dopo:
Durante il 1948 ho iniziato a fotografare ritratti in un piccolo spazio d’angolo realizzato con due pannelli messi insieme e il pavimento coperto da un pezzo di vecchia moquette. Questo confinamento sorprendentemente sembrava dare conforto alle persone, calmandole. Le pareti erano una superficie su cui appoggiarsi o spingere contro. Per me le possibilità dell’immagine erano interessanti: limitare i movimenti del soggetto sembrava sollevarmi di una parte del problema di occuparmi di loro.
Cos’hanno in comune le immagini dei mozziconi con questi ritratti inconsueti? E cosa ci porta all’autoritratto che Penn crea nel 1986?
Ci vedo due elementi. Prima di tutto l’imperfezione (presenza paradossale in stampe che, come ho ricordato sopra, erano di una perfezione tecnica assoluta). L’imperfezione presente in scarti buttati via, in corpi costretti in spazi angusti che si contorcono, forse con calma e tranquillità, ma certamente cercando posizioni non classiche né eleganti, per adattarsi a quello spazio così anomalo.
E poi l’idea dello schiacciamento, della compressione, della improvvisa mancanza di spazio. Come se Penn, che nella sua multiforme attività di fotografo aveva anche realizzato servizi in varie parti del mondo, sentisse lo spazio dello studio (il suo spazio vitale?) come qualcosa in fondo di soffocante, una mancanza di spazio che diventava mancanza di respiro (quanto respiro disperso attraverso quei mozziconi): un sottofondo claustrofobico, una vibrazione sfumata ma ben presente.
Di questi due elementi è imbevuto l’autoritratto. Il volto come schiacciato dalla sua parte sinistra, sorprendentemente viene duplicato e manipolato: l’occhio sinistro spalancato ci butta addosso uno sguardo reso ancora più inquietante dall’orecchio che si allunga e si assottiglia richiamando all’immaginazione particolari anatomici alieni, la bocca si apre in un ghigno anch’esso duplicato, ma solo parzialmente: io vedo un volto schiacciato su una lastra di vetro riflettente, che mantiene da una parte tutta la sua dignità e profondità, ma dall’altra si duplica e si contorce creando una maschera grottesca: un volto saldo e concreto che improvvisamente inizia a liquefarsi.
La raffigurazione del volto è caratterizzata inoltre da una assoluta ricchezza tonale e da una resa dettagliatissima di tutti i particolari. Il reticolo delle rughe, la grana della pelle, i pochi capelli cortissimi, tutto suggerisce concretezza e perfezione tecnica. Ma poi tutto si sfalda. Macchie di vario tipo entrano nella composizione, triangoli luminosi, ombre innaturali, linee che sfuggono dal volto (un brandello acuminato di mandibola che se ne va per conto proprio), addirittura i riflessi del diaframma della macchina fotografica. E ancora macchie sullo sfondo bianco, perfino il bordo di qualcosa (una cornice?) che compare in alto a destra. Quanta imperfezione si raduna in questo perfetto autoritratto.
È curioso pensare che nello stesso anno in cui realizza questo autoritratto, Penn fotografa una serie di crani animali scoperti in un museo di Praga, che danno origine a una serie intitolata “Cranium Architecture”. Crani come architetture rigorose e stabili. Che contenevano vita ma ora ne mantengono solo un ricordo silenzioso. Architetture armoniose ma che accolgono inesorabilmente in loro l’idea del disfacimento.
Forse questo ci racconta l’autoritratto di Penn. Forse ci parla di come la vita ricca e intensa che ci modella disegnando il reticolo di linee dei nostri volti, deve far fronte a eventi drammatici, che ci schiacciano, che nulla può essere perfetto come sembra, che le macchie e le distorsioni ci accompagnano quotidianamente, accumulandosi su di noi, e che la perfezione esiste solo in ciò che resta quando ce ne siamo andati.